Il primo seme di Vivaio è stato a Berlino. Ero in una libreria del centro e vidi un numero speciale di una rivista, dedicato ai 100 giovani che sarebbero stati protagonisti nel futuro della Germania. Qualche tempo dopo sono tornato a vivere a Milano e trovandola ancora ingessata dalle solite cricche di potere e dall’immobilismo, ho pensato che potesse utile un libro del genere. Così ho contattato Nini Briglia, lo zar dell’editoria, e gli ho proposto di realizzare una guida sui 100 emergenti di Milano. Briglia mi ha ascoltato con attenzione poi mi ha freddato: “un libro del genere venderebbe 10 mila copie al massimo. Sai per Mondadori cosa sono 10mila copie? Niente, sono il niente”.
Una caratteristica dei grandi è quella di non limitarsi ad abbattere, ma di segnare sempre una strada migliore. Dopo qualche secondo Briglia ha aggiunto: “Ma se tu hai modo di mettere assieme tutti questi nuovi talenti, perché non pensi a fare qualcosa di più che un libro?”. Ok, lo riconosco, sono uscito dalla Mondadori con le orecchie basse perché ancora una volta svaniva il sogno di pubblicare un libro. Questo è il mio kharma insuperabile di cui un giorno racconterò, facendo ridere alcuni e pena ad altri. Ma torniamo ai talenti emergenti della città. Dunque, che fare? Ho deciso di seguire il consiglio provando a metterli assieme per vedere che succedeva. Il mio sogno era realizzare a Milano quel ricambio di cui si favoleggiava.
Ho chiesto a due nuovi contatti conosciuti dopo la tabula rasa di 7 anni vissuti all’estero, Guido Romeo di Wired e Martina Mazzotta, di aiutarmi a stilare una prima lista di emergenti di tutti i settori, tranne quello politico per evitare strumentalizzazioni. Volevo sapere chi, secondo loro, erano i più bravi nei loro campi, non ancora “arrivati” e con una sensibilità a fare qualcosa di bello nella loro vita, non solo per se stessi ma anche per il resto del mondo. Gli dicevo che cercavo dei “cavalieri bianchi” che fossero sulla strada della loro realizzazione e che potessero perciò mettere a frutto di altri la loro gratificazione. La prima lista era composta da una ventina di nomi di cui una decina arrivava da loro e un’altra da una mia ricerca. Ho incontrato tutti i 20 per dire loro di persona che l’obiettivo era di rendere grande milano mettendo insieme persone di valore che ancora non avevano ruoli consolidati e che dovevano sentirsi responsabili di migliorare le cose. Ma dicevo loro anche che non sapevo come avremmo potuto fare.
Quasi tutti mi dissero che avrebbero partecipato a questo primo incontro, per vedere cosa succedeva. Già, l’incontro. Al momento era tutto talmente fragile che non potevo fare errori. Un errore sicuro sarebbe stato scegliere il luogo sbagliato. Era chiaro che il gruppo che si stava profilando aveva due anime: c’era il mondo del business e quello della cultura. Volevo evitare un luogo che fosse troppo orientato al business, come un hotel, oppure troppo alla cultura, come un teatro. Ero convinto, come lo sono adesso, che la forza del gruppo dovesse essere la diversità, garantita in primis dalla trasversalità dei componenti. E che non ci dovessero essere sbilanciamenti tra le diverse anime del gruppo. Parlando di questo tema con uno di quelli della lista, l’imprenditore Umberto Malesci, gli chiesi se conosceva un luogo neutrale da suggerirmi per questo primo incontro. Lui disse di provare col Vivaio Riva.
Disse che era un posto incantevole gestito da due sorelle, signore di gran carattere che se gli stavi antipatico ti potevano cacciare all’istante, anche a rischio di perdere soldi. Interessante. Così sono andato al vivaio riva. Ho incontrato Angela Riva, che purtroppo ora non c’è più. Le dissi dell’idea ancora vaga di mettere assieme emergenti di talento dei diversi settori, per rendere Milano la migliore città del mondo. I suoi grandi occhi blu mi sorrisero: “il vostro progetto dovete farlo qua!”. Avevamo trovato una casa. Si arrivò così alla prima riunione, in cui persone che non si conoscevano si trovavano assieme senza sapere cosa fare.
Dopo esserci presentati, io aprii dicendo: “Siamo qui per provare a fare qualcosa di buono per Milano. Cosa potremmo fare?” E fu il caos. Molti criticavano cose che non andavano, altri dicevano cose interessanti ma che non si capiva se potessero avere un senso, la maggioranza seguiva disorientata. L’unica cosa che ci trovò tutti d’accordo fu il nome da darci: vivaio. Dopo il fallimento del primo incontro, con quelli che poi sono diventati i fondatori abbiamo iniziato ad apportare delle modifiche, cosa che è rimasta la prassi in tutte le successive riunioni in cui si presentano sempre delle novità. La modifica più sostanziale era quella di risolvere il problema più evidente: la mancanza di concretezza. In due ore di chiacchiere era emersa solo la condivisione del nome, così si è deciso di rintracciare dei progetti a cui i vivaisti avrebbero dato i loro consigli su come realizzarli. Abbiamo trovato un paio di persone che sono venuti a illustrarci i loro progetti.
E ancora una volta è stato il disastro: c’era chi si sentiva di esprimere dei consigli anche se non ci capiva nulla, altri pur di dire qualcosa entravano a gamba a tesa stroncando con le critiche i progetti, dicendo che non avrebbero mai funzionato sottolineando i punti di debolezza. C’era anche chi diceva cose preziose ma risultava sommerso da quel caos. Niente, ancora una volta non c’eravamo. Dopo le prime due riunioni alcuni si sono defilati, e per la verità era difficile dargli torto: non si combinava nulla e, cosa peggiore, non si vedeva davanti a noi alcun orizzonte verso cui dirigerci. Altro confronto con i futuri fondatori e nuova modifica: si è stabilita la regola che durante le riunioni fossero vietate le critiche distruttive, i lamenti e le chiacchiere a vuoto. Come in un vivaio le piante sono ancora fragili per essere potate o sommerse dall’erbaccia. Così era per le idee che si affacciavano nei nostri incontri. In più si era capito che non eravamo ancora pronti a supportare progetti di altri. Questo perché ancora ci conoscevamo poco tra noi, non si capiva in cosa ognuno sarebbe potuto essere utile. E soprattutto, stabilimmo quella che è diventata un’atra regola aurea di Vivaio: “Prima si deve dimostrare di saper fare e poi si possono dare consigli per aiutare gli altri”.
Nella terza riunione a quelli che avevano tenuto duro dissi che per evitare di diventare il solito think tank in cui ci si limita alle chiacchiere ma poi nessuno fa, noi dovevamo prendere la strada più difficile, forse impossibile. Avremmo dovuto prima di tutto realizzare noi un progetto. Senza risorse che non fossero la nostra capacità e la nostra intelligenza. Solo dopo che avessimo dimostrato di fare, allora avremmo potuto iniziare ad essere di aiuto agli altri e, soprattutto, alla città. Ricordo gli sguardi perplessi e pure quelli luminosi. Allora, con che progetto iniziare? Si decise di ripartire dal mare di critiche su Milano con cui erano state inondate le prime due riunioni. La sfida era di trovare la critica su cui tutti ci trovassimo d’accordo e a quel punto il progetto sarebbe stata la nostra soluzione a quella critica. Fu facile trovare un punto d’accordo tra le critiche: eravamo alla fine del 2011 e a Milano si delineava un disastro. Expo.
A quei tempi era la stasi e di Expo si intravedevano solo le polemiche e il malaffare. Ci siamo detti, “Expo come è oggi, o meglio come non è oggi, non piace a nessuno di noi, tutti noi pensiamo che rischia di essere un’occasione persa. Dunque che fare?”. Abbiamo provato a immaginare come ci sarebbe piaciuta che fosse Expo. Ci sarebbe piaciuta una Expo che avesse segnato lo spirito dei tempi, la prima Expo che fosse “delle persone”, dove per la prima volta non fossero mostrati solo i progetti degli stati, ma anche i progetti visionari di singoli individui. In più che fosse un’Expo capace di lasciare qualcosa alla città, uno o più progetti in grado di migliorarla radicalmente.
Così è nata l’idea di realizzare Expop, la versione pop di Expo, che dal 2012 mette in scena progetti che possano rendere Milano una città unica al mondo. Con la decisione di realizzare Expop, il primo progetto interamente organizzato da Vivaio, si è presa anche la decisione di trasformare Vivaio in un’associazione. Fu difficile scegliere gli altri quattro fondatori tra i diversi di grande valore, anche perché li avevo scelti personalmente, che formavano Vivaio.
Molti lo avrebbero meritato, ma fui sicuro su chi dovessero essere i quattro che fin dal primo contatto avevano condiviso ogni singolo passo e che avevano mostrato una totale sintonia con lo spirito che volevamo dare a Vivaio. Ero certo che eravamo persone complementari, necessarie per fare crescere Vivaio e in grado di attirare splendide persone animate dagli stessi intenti e dall’identica visione: quella di lavorare assieme esclusivamente per rendere Milano un vivaio di idee e di progetti capaci di risplendere nel mondo.
Così è nato Vivaio, il 21 marzo 2012. Primo giorno di primavera.
Andrea Zoppolato